
Bene donne (e uomini), dopo tutta la retorica tipica del giorno a noi dedicato, oggi che ne dite di fermarci un attimo a riflettere?
Ieri era l’8 marzo, una data che ci richiama a celebrare, sì, ma anche a fermarci a pensare: quanto ancora dobbiamo lottare per essere ascoltate, rispettate, riconosciute? Nonostante tutto ciò che abbiamo conquistato, nonostante il coraggio e la resilienza che ogni giorno portiamo avanti, la strada è ancora lunga. Ogni giorno, donne di ogni angolo del mondo lottano contro le ombre di un sistema che continua a marginalizzarle, che non le riconosce pienamente per quello che sono, che non valorizza la loro potenza, la loro forza. Non parliamo solo di barriere visibili, ma anche di quelle più sottili, quelle invisibili, che ci costringono a fare un passo indietro, a ridurre il nostro spazio, a dimenticare i nostri sogni per venire incontro a quello che il mondo si aspetta da noi. Eppure, nonostante tutto, continuiamo ad andare avanti.
E oggi, proprio oggi, mi e vi chiedo: non è ora di arrabbiarci davvero? Non è ora di dire basta con la violenza fisica e psicologica che ci scava dentro? Basta con il giudizio, con il peso di doverci conformare a modelli di vita che non ci appartengono? Non siamo stufe di dover dimostrare sempre qualcosa in più per essere amate, rispettate, ascoltate?
Parliamo di violenza, quella che ti ferisce senza lasciare tracce visibili, quella che ti dice che non sei abbastanza, quella che ti spinge a dubitare di te stessa ogni volta che qualcuno minimizza i tuoi sentimenti, le tue esperienze. Parlo di quella violenza che prende la forma di parole, battute, gesti, bugie, che per molti sono innocenti ma che per una donna sono come colpi inferti all’anima. Non dobbiamo più accettare che queste dinamiche siano “normali”, non dobbiamo più giustificarle. Ma è inevitabile parlare – e qui voglio fermarmi un attimo, perché il silenzio su un tema del genere sarebbe intollerabile – dei femminicidi. Ogni volta che una donna perde la vita a causa della violenza di un uomo, è una ferita profonda per l’intera società. Eppure, non possiamo dimenticare che questi omicidi non sono “incidenti” isolati, ma l’atto finale di un percorso che ha radici in una cultura che ancora oggi considera le donne come proprietà, come oggetti da possedere e controllare. La violenza sulle donne non si ferma al corpo: è un atto che toglie la vita, che cancella sogni, speranze, e opportunità. Ogni femminicidio è il fallimento di tutti noi, è il fallimento della nostra capacità di costruire una società più giusta, di liberare le donne dalla paura e dalla violenza. Non possiamo più permettere che il corpo delle donne sia un campo di battaglia, che le loro vite siano sacrificate sull’altare di un sistema che le riduce a “cose”.
Ogni giorno, ci sono donne che subiscono in silenzio, che non denunciano per paura di essere giudicate, per timore di non essere credute, per vergogna. Quante volte abbiamo fatto lo stesso, quante volte abbiamo messo da parte il nostro dolore per non “disturbare”? Per non apparire “esagerate”? E quante volte abbiamo fatto finta di non vedere la sofferenza dell’altra, per continuare a vivere a cuore leggero la nostra vita? Il tempo del silenzio è finito. Il nostro grido di dignità non deve essere solo un grido di protesta, ma una dichiarazione di esistenza, di autodeterminazione.
Non possiamo ignorare nemmeno l’educazione che riceviamo fin da piccole. Ci insegnano che il nostro valore è legato alla nostra capacità di “sistemarci”, di trovare un marito, di costruire una famiglia. E se non rientriamo in questi parametri, ci sentiamo inadeguate, fuori posto. Se una donna decide di intraprendere un cammino professionale, di rimanere single, di non adattarsi alle aspettative tradizionali, si trova a dover fare i conti con il disfavore di una gran parte della società. Spesso, una donna emancipata, che sceglie di vivere secondo le proprie regole, viene etichettata come una poco di buono, una persona che non rispetta i valori tradizionali e che non si sottomette al ruolo che la cultura patriarcale le impone. Non siamo giudicate per quello che siamo, ma per quello che dovremmo essere secondo un copione scritto da altri.
Abbiamo imparato che il cambiamento non arriva da solo, che nessuno ce lo regala. Se vogliamo un futuro di parità, di libertà, di rispetto, dobbiamo agire ora. Per cambiare davvero, dobbiamo anche guardare a chi siamo, a come ci relazioniamo con il mondo e con gli altri. Per troppo tempo abbiamo subito, senza alzare la voce abbastanza forte. È il momento di farlo. È il momento di farci sentire! Non possiamo più aspettare che qualcun altro risolva i nostri problemi. Non possiamo più aspettare che siano gli uomini a prendersi carico della nostra liberazione. Questa è la nostra battaglia, è il nostro momento. Non è più tempo di aspettare che qualcosa cambi da sola. Siamo noi che dobbiamo fare il cambiamento. La buona notizia è che c’è un movimento che non sta aspettando: è il movimento femminista e transfemminista, che oggi più che mai sta scrivendo una nuova pagina di lotta. Il transfemminismo non è solo un movimento che si batte per le donne, ma è un movimento che si oppone a ogni forma di oppressione legata al genere, all’orientamento sessuale e che si fa eco di tutte le battaglie di giustizia sociale. È un movimento intersezionale, che riconosce e abbraccia le differenze, che include tutte le comunità. Non Una Di Meno, ad esempio, ha organizzato più di duemila scioperi in Italia, e ogni volta che scendiamo in piazza, scendiamo per tutte, per un mondo migliore, per un mondo più giusto.
Ma parliamo anche di comunità locali: in molte città italiane le donne e i gruppi transfemministi stanno portando avanti battaglie concrete per l’autodeterminazione. Sappiamo che il nostro potere collettivo è immenso. Le nostre voci, unite, possono ribaltare le strutture che ci opprimono. Guardiamo anche alla realtà di Enna, dove, ad esempio, la presenza di presidi femministi e transfeministi è quasi assente. Ma è proprio da lì che deve partire una riflessione. Perché se ci fossero più spazi di sensibilizzazione e organizzazione, forse certe tragedie si sarebbero potute evitare. Non è solo una questione di libertà delle donne, ma di crescita culturale per tutta la società. La lotta delle donne non riguarda solo noi, riguarda anche quegli uomini che sono condizionati da una visione patriarcale che limita la loro libertà e umanità. Questi uomini, che spesso lottano con i modelli di aggressività e dominanza imposti dalla società, hanno bisogno di spazi locali dove possano confrontarsi e riflettere su come la cultura patriarcale li opprime tanto quanto noi. La presenza di presidi femministi e transfeministi sarebbe quindi importante anche per loro, non solo per le donne, perché offrirebbe la possibilità di abbattere le barriere che impediscono una vera crescita personale e collettiva. Spazi di sensibilizzazione e di dialogo potrebbero aiutarli a superare le difficoltà che derivano dall’imposizione di ruoli rigidi, aprendo la strada a una cultura di rispetto, uguaglianza e libertà per tutti.
Ogni passo che facciamo, ogni battaglia che combattiamo, porta un seme di cambiamento. E il nostro è e deve essere un cambiamento collettivo, che deve abbracciare la giustizia sociale per tutti. Oggi più che mai, dobbiamo sostenere la libertà di ogni donna di scegliere il proprio percorso, di vivere senza paura di essere giudicata o limitata.
Basta con il silenzio. Basta con le ingiustizie visibili e invisibili. È il momento di fare rumore, di fare valere il nostro diritto a esistere, a essere rispettate, a essere ascoltate. Non siamo “così” o “quella cosa”, siamo donne con una potenza infinita. È il momento di rivelarla, di farla esplodere in tutta la sua forza. Non ci fermeremo, perché siamo come il vino rosé, quello che una volta veniva considerato “da femminucce”, ma che in realtà, dopo un processo lungo e complesso, raggiunge un sapore straordinario e numerose sfumature di rosa. La nostra vinificazione è difficile, ma oggi siamo pronte a brindare.
Manuela Acqua