La Pasqua a Enna: una processione di tradizione o di ipocrisia sociale?

La Settimana Santa ad Enna è, come ogni anno, il cuore pulsante della città. Un evento che unisce religiosità, storia, cultura e – da non dimenticare– anche una significativa ricaduta economica. Ogni anno, la processione del Venerdì Santo raccoglie migliaia di fedeli, richiamando l’attenzione di chi vede in essa il culmine di una tradizione secolare. Ma quest’anno, a meno di due settimane dal suo svolgersi, il dibattito sulla figura del monsignore che porterà la Spina Santa ha sollevato un vero e proprio terremoto sociale, mettendo in discussione non solo l’organizzazione dell’evento, ma anche i valori morali della comunità.
Da un lato, il Sindaco e gli assessori dell’amministrazione comunale si sono fatti sentire, difendendo la tradizione e minimizzando il valore morale della questione. La Settimana Santa, sostengono, è un appuntamento irrinunciabile, che non può essere contaminato da “strumentalizzazioni”. Eppure, è difficile non chiedersi: quali strumentalizzazioni? È davvero una questione di opportunità o semplicemente di buona gestione organizzativa? O forse, come qualcuno potrebbe azzardare, si sta cercando di tutelare qualcosa di ben più importante: l’immagine di una città che si è costruita intorno a queste tradizioni, che non può permettersi di fare un passo indietro, nemmeno di fronte a accuse gravissime?
Il caso in questione, infatti, non riguarda né il colore delle vesti del monsignore, né la sua capacità di portare la Spina Santa con devozione. Il punto centrale è ben altro: il monsignore è coinvolto in un processo per falsa testimonianza. Un’accusa che, per quanto non sia una condanna definitiva, solleva un interrogativo: qual è il messaggio che si sta dando alla comunità, e in particolare alle vittime di abusi, permettendo che una persona sotto accusa per crimini gravi occupi una posizione di rilievo durante uno dei momenti più sacri dell’anno?
Le istituzioni hanno il compito di rispondere ai bisogni morali e civili della comunità. Non è solo una questione giuridica: si tratta di un problema di responsabilità morale. La difesa dell’amministrazione, che sottolinea l’assenza di competenze in materia ecclesiastica e di “strumentalizzazioni”, rischia di apparire una fuga da una responsabilità che, invece, le appartiene pienamente. Come si può, infatti, sostenere che le istituzioni civili non abbiano alcuna influenza sulle decisioni morali, quando quelle stesse decisioni impattano profondamente sul tessuto sociale e sul rispetto delle vittime di abusi?
Ecco, il punto è questo: non sono coloro che chiedono un passo indietro del monsignore a strumentalizzare la situazione, ma sono coloro che prendono sotto gamba una questione che meriterebbe di essere trattata con la serietà che comporta. Come possono i cittadini accettare che un uomo accusato di reati gravi, e che, stando alle accuse, ha già violato il comandamento “Non dire falsa testimonianza”, continui a essere celebrato pubblicamente senza che vi sia un minimo segno di consapevolezza della gravità della situazione? Non si sta chiedendo una condanna morale preventiva, ma semplicemente un atto di responsabilità: un passo indietro che non rappresenterebbe una sconfitta, ma piuttosto una prova di integrità. Perché, alla fine, è proprio questo il cuore del problema: un monsignore che, ad oggi, non ha rispettato un comandamento fondamentale della fede, che non riguarda solo il piano legale, ma anche la sua condotta morale e spirituale, potrebbe ben poco essere il simbolo della purezza e della redenzione in una cerimonia così sacra.
Chi lo fa, chiede solo un passo indietro, in attesa che la magistratura faccia il suo corso e stabilisca la verità. Se poi la giustizia dovesse valutare il monsignore innocente, non ci sarebbero problemi nel vederlo riprendere il suo posto con la stessa dignità di prima. Ma finché non ci sarà un atto di responsabilità, un segno di consapevolezza morale da parte sua, sembra difficile non considerare la sua presenza come una provocazione, più che una testimonianza di fede.
A questo punto, l’affermazione di un assessore che “l’amministrazione ha dimostrato vicinanza alle vittime” sembra piuttosto una dichiarazione di comodo. La vicinanza non si dimostra solo con le parole, ma con azioni concrete, con scelte che diano un segnale chiaro alla cittadinanza. Ed è proprio questo il punto: le azioni, le scelte morali, sono sempre più significative delle parole. E non è certo con la presenza di un uomo, al momento, sotto accusa che si darà un segnale di solidarietà a chi ha sofferto. Perché il vero coraggio in questi casi non sta nell’affermare che tutto seguirà come sempre, ma nell’affrontare il difficile confronto con la realtà e con le sue implicazioni morali. Un ulteriore aspetto che non si può ignorare è un’altra recente dichiarazione dello stesso assessore che ha utilizzato una formulazione curiosa e ambigua riguardo alle “vittime” degli abusi. La parola “vittima”, infatti, è stata messa tra virgolette, quasi a mettere in discussione il fatto che la persona in questione possa essere considerata tale. Un dettaglio che non è passato inosservato. Questo quasi innocente “virgolettato” ha dato il via a una difesa a spada tratta da parte dell’amministrazione, che ha rilanciato con veemenza la sua linea, continuando a minimizzare la situazione. Ma la vera domanda è: come può un’istituzione pubblica, che dovrebbe tutelare la dignità delle vittime e la giustizia, permettere che una tale ambiguità passi inosservata?
A fianco della difesa da parte dell’amministrazione comunale, c’è un silenzio altrettanto significativo da parte delle opposizioni, che sembrerebbero preferire non prendere posizione in merito. È evidente che anche loro, forse per opportunità politica, sono riluttanti a criticare una tradizione che potrebbe avere ripercussioni a livello locale. Un silenzio che non fa altro che contribuire al mantenimento dello status quo, impedendo un vero e proprio dibattito sulla moralità di questa situazione.
Poi ci sono alcuni fedeli che, difendendo la presenza del monsignore, etichettano come “fanatici” o “in cerca di visibilità” coloro che chiedono che la sua partecipazione alla processione venga sospesa. Ma forse, per chi non ha compreso la gravità della situazione, i veri e unici fanatici sono proprio loro. Fanatici di una tradizione che, pur di non essere messa in discussione, si chiude gli occhi di fronte a un atto di giustizia che non può più essere ignorato. Se si è disposti a sacrificare il rispetto per le vittime e il valore simbolico di un momento sacro come la Pasqua pur di non compromettere il “Venerdì Santo”, allora la parola “fanatico” acquista un significato del tutto nuovo.
Non è questione di visibilità, né di ricerca di attenzioni, ma di coerenza morale e di responsabilità. La questione non è nemmeno legata a una difesa ideologica della Settimana Santa, ma alla sua integrità. La sacralità di questa festa, e di tutte le sue tradizioni, non può essere ridotta a un atto che ignori le sofferenze di chi è stato colpito da crimini così gravi. E forse, è proprio questa la vera “santificazione” che va cercata: non quella di chi può continuare a indossare una veste senza nemmeno considerare l’impatto delle sue azioni su chi ha sofferto, ma quella di una comunità che ha il coraggio di mettere da parte l’immagine e le apparenze per fare ciò che è giusto.
In conclusione, la vera domanda che si pone alla comunità di Enna non è se la tradizione debba essere rispettata ad ogni costo, ma se la fede, la giustizia e la dignità delle vittime non siano, alla fine, valori più importanti di un’apparente continuità. La Settimana Santa, con il suo carico di spiritualità e simbolismo, non dovrebbe essere una scusa per celare l’omertà o la paura di affrontare una verità scomoda. Non si chiedono miracoli, ma semplicemente coerenza. Coerenza con i valori che dovrebbero animare ogni passo, ogni gesto, ogni preghiera di questa città. Coerenza con la responsabilità di proteggere i più deboli, di onorare la verità e di non fare della passività un alibi per non fare ciò che è giusto.
Manuela Acqua