CONSIDERAZIONI SUL’ EUTANASIA NEL MUTATO RAPPORTO TRA MEDICO E PAZIENTE: DAL MEDICO DI IPPOCRATE AL MEDICO DI OGGI.
Originariamente il rapporto tra medico e paziente, medico tradizionalmente configurato dal medico di Ippocrate, si basava su un ordine preciso: il dovere del medico è fare il bene del paziente e il dovere di questi è di accettarlo.
Il medico ippocratico e paternalista non ha il dovere di dare informazioni al paziente.
Con il passare dei secoli, l’atteggiamento paternalista fortifica il carisma del medico, ma allo stesso tempo contribuisce alla nascita di un linguaggio sempre più inaccessibile all’uomo comune, che di conseguenza accresce la separazione del rapporto tra il medico e il paziente.
Molière, nella sua disparata e più violenta battaglia contro la medicina del suo tempo, bolla, nella sua opera “Il malato immaginario”, la deleteria pretesa terapeutica dei medici e il loro assurdo potere.
Con il passare degli anni l’invito kantiano a servirsi della propria ragione viene esteso in ogni campo della vita sociale.
Il principio paternalistico incomincia ad essere visto con sospetto.
Il principio di autonomia, di privacy e le carte dei diritti attaccano dall’esterno la roccaforte della medicina, provocando non solo un cambiamento etico, ma anche una rivoluzione giuridica.
Il medico gradualmente abbandona i panni autorevoli e impunibili del sacerdote della salute, per indossare quelli del tecnico che stipula un contratto con il proprio cliente.
Il medico non può più intervenire sul corpo di una persona senza il suo permesso, deve essere, in qualche modo, autorizzato dal paziente. Nel 1914 per la prima volta la legge americana afferma il diritto del paziente all’autodeterminazione.
Ogni paziente ha, quindi, il diritto all’inviolabilità della propria persona, scegliendo come vuole essere trattato dal punto di vista medico, per cui qualsiasi intervento senza il suo consenso può configurarsi come reato di aggressione, anche quando sia eseguito alla perfezione e abbia effetti benefici.
Diviene indispensabile il consenso esplicito e informato al trattamento medico.
Abbiamo raggiunto così un punto cruciale dei mutamenti che stanno accadendo in medicina: la necessità di rispettare il principio di autonomia e la pratica del consenso libero e informato, in qualche modo modificano la sede del processo decisionale dal medico al paziente.
In questo mutato rapporto tra medico e paziente nasce la problematica dell’eutanasia, dell’accanimento terapeutico, del testamento biologico.
Parlare di queste problematiche, oggi, non vuol dire, quindi, parlare solo del diritto alla vita, ma anche del diritto all’autodeterminazione. Oggi il paziente si è caratterizzato nell’ambito di un movimento ideologico, dove si privilegia il diritto del malato ad essere protetto dalla sua malattia. In base a ciò, si passa da un diritto alla vita ad un diritto della qualità della vita.
Per la comunità medica è fondamentale fare una distinzione tra “eutanasia attiva” ed “eutanasia passiva“. La prima si riferisce al causare direttamente la morte del paziente, la seconda all’astenersi dal fare qualcosa per mantenere in vita il paziente o il causarne la morte in modo indiretto. Possiamo ritenere differente, togliere il sondino nasogastrico per idratazione e alimentazione artificiale e spegnere il respiratore automatico, dall’iniettare una dose mortale di un medicinale.
Ritengo che il medico debba trovare più giusto moralmente, “lasciar accadere qualcosa” invece di “far accadere qualcosa”. In tale ambito, è molto importante in riguardo alle nostre responsabilità nei confronti della vita umana, questa evidente differenza tra azione e omissione, tra il fare e il non fare.
Per “eutanasia attiva” s’intende un’azione positiva volta ad uccidere il paziente, cioè fare un’iniezione di cloruro di potassio ecc.; “eutanasia passiva” vuol dire evitare di fare ciò che servirebbe a tenere in vita il paziente, cioè lasciar morire in modo naturale, evitare di cadere nell’accanimento terapeutico.
Molti reclamano la legalizzazione dell’eutanasia per impedire l’accanimento terapeutico.
L’accanimento «terapeutico» non è richiesto né moralmente né giuridicamente. La deontologia medica, la morale e il diritto obbligano il medico, né più né meno, a combattere il dolore e a prodigare cure ordinarie, utili e proporzionate. In compenso, egli non è affatto tenuto a intraprendere o a prolungare una cura inutile o sproporzionata nel caso in cui il beneficio ottenibile appaia molto fragile rispetto ai disagi, alle costrizioni o al costo che i mezzi posti in atto implicherebbero per il paziente.
Per iniziare una discussione sull’eutanasia ci dobbiamo chiedere se siamo condizionati dalla nostra fede religiosa.
Molti gruppi religiosi, come i cristiani e i giudei, pensano che Dio dia la vita e dunque soltanto Lui dovrebbe porvi fine. Il suicidio sarebbe dunque considerato come un rifiuto della sovranità di Dio e del suo programma di amore. Queste religioni pensano che noi siamo custodi delle nostre vite ed il suicidio non dovrebbe mai essere praticato.
Molti gruppi religiosi pensano che la sofferenza umana possa avere un valore positivo per il paziente terminale. Per loro la sofferenza può essere un’occasione divina per migliorare o essere purificati.
Tuttavia, sembra fondamentalmente ingiusto usare una discussione religiosa per una decisione di interesse collettivo.
C’è un numero considerevole di adulti con credenze religiose che considerano l’eutanasia come una scelta accettabile in alcuni casi. Ci sono inoltre molti secularisti, atei, agnostici, ecc., che non concordano con questi argomenti religiosi.
Non tutte le chiese cristiane la pensano così: diverse chiese protestanti hanno assunto posizioni più liberali, e alcune chiese minori riconoscono apertamente il diritto dell’individuo di disporre della propria vita. Per i valdesi l’eutanasia «è un diritto che va riconosciuto».
Ci dobbiamo chiedere, questi argomenti giustificano la negazione della possibilità di praticare l’eutanasia alla gente che non crede?
Abbiamo il diritto di imporre il nostro credo religioso in coloro che non lo accettano?
In definitiva, l’eutanasia può essere una scelta?
Il diritto di morire in dignità è uno dei principali argomenti utilizzati per promuovere la legalizzazione dell’eutanasia.
E’ vero, ogni persona ha effettivamente il diritto di morire in dignità. Tutti sono concordi nel riconoscerlo.
Il linguaggio diviene una trappola, perché una cosa è aiutare un paziente a morire (badando a fargli compagnia nella sua angoscia, a dare sollievo al suo dolore, a portargli conforto…), altra cosa è farlo morire. Quando un medico decide di non iniziare o di cessare una cura ormai inutile o sproporzionata, il paziente morirà in conseguenza della patologia mortale di cui soffriva; al contrario, se il medico somministra una sostanza letale, è questo atto a costituire la causa della morte del paziente. Così pure c’è una differenza di intenzione: nel primo caso, si cerca di risparmiare al paziente delle sofferenze inutili a rischio di affrettarne la morte; nel secondo, l’intenzione è di provocare la morte del paziente per eliminare la sofferenza. L’intenzione segna pertanto la differenza tra la medicina palliativa e l’eutanasia.
La Consulta di Bioetica Italiana, ,costituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha dichiarato : <…all’individuo deve essere riconosciuta la facoltà di por fine ai propri giorni col suicidio o di chiedere di essere aiutato a morire ove si trovi in situazioni di incapacità e di insopportabile sofferenza e perdita di dignità…>
Possono apparire inaspettate queste dichiarazioni all’opinione pubblica, ma a favore di queste dichiarazioni la Consulta di Bioetica ha sostenuto che parte delle richieste di eutanasia potrebbero essere evitate in futuro una volta abbandonato l’accanimento terapeutico e con un maggiore impulso all’utilizzo appropriato delle “cure palliative”, il cui scopo è di dare dignità alla morte. La medicina e le cure palliative comprendono trattamenti medici, cure del corpo, ma anche assistenza psicologica, sociale e spirituale del paziente nonché dei suoi congiunti.
Queste misure possono migliorare sensibilmente la qualità di vita di malati gravi e di morenti e, quindi, evitare che sorgano desideri di morte.
La Consulta di Bioetica si è espressa inoltre a favore di un Testamento Biologico che in ogni caso esclude l’eutanasia; quest’ultimo rappresenta l’opportunità per ogni cittadino di decidere sulle terapie che vorrà ricevere in caso di malattia, se non sarà più cosciente.
Il Testamento è dunque rappresentato da una dichiarazione chiara e decisa, scritta dal paziente capace di intendere e di volere, sul suo futuro in caso di malattia senza possibilità di guarigione. Egli può decidere di rifiutare l’accanimento terapeutico e, forse in futuro anche l’interruzione del suo stato di coma vegetativo persistente.
La mia esperienza professionale di Rianimatore mi porta a rifiutare l’eutanasia attiva a favore di una eutanasia passiva, ritenendo di rispettare ugualmente il diritto all’autodeterminazione del paziente.
Non è un paese civile quello che limita la libertà dei cittadini rispetto all’invasione del proprio corpo da parte della tecnologia medica, e non è un paese quel paese dove i medici sono costretti ad idratare e nutrire artificialmente un paziente perché lo prevede la legge e non una indicazione clinica.
L’autodeterminazione è un principio sancito dalla costituzione.
Bisogna rispondere ad una semplice domanda: la vita a chi appartiene? Alla Chiesa? Allo stato? O all’individuo inteso come persona morale? Io ritengo che appartenga all’individuo e per questo vanno rispettate le scelte dell’individuo.
Dottore Paolo Alaimo