Breve storia di Mattia e Daniel, due bambini specialissimi
MMiattia e Daniel sono due bambini speciali. Speciali davvero, nell’accezione più ampia del termine. Daniel, 7 anni, ha una paralisi dalla nascita ed è costretto a stare sulla sedia a rotelle. Il suo fratellino, un paio d’anni più di lui, gli sorride e gli fa coraggio seduto accanto, mentre attendono il loro turno per la visita ambulatoriale.
“Su questo scoglio di buona speranza scelgo la vita, l’unica salva. E quando penso che sia finita è proprio adesso che comincia la salita. Che fantastica storia è la vita”. Canticchiano Venditti assieme, storpiando un po’ le parole ma intonatissimi, dividendo le auricolari del telefonino mentre mamma fa l’accettazione pochi metri più in là.
Succede tutto l’anno scorso, in autunno, mentre mi trovo all’ospedale Bambin Gesù di Roma. Aspetto anch’io di fare l’accettazione, ma il mio 84 è ancora lontano. Così me ne sto seduto per i fatti miei. Non ricordo i loro nomi, perdonatemi se ne scelgo due a caso. Finita la canzone, Mattia si dev’essere accorto che li sto osservando con mezzo sorriso, e mi dice qualcosa come: “Vuoi che cantiamo più piano?”.
“No, perché? Siete bravissimi, complimenti”.
A quel punto scambiamo due chiacchiere, mentre la loro mamma ci guarda da lontano divisa fra la preoccupazione – vedere un adulto estraneo a parlare con i loro figli – e il sollievo di comprendere che quantomeno li faccio stare buoni per qualche minuto.
“Come hai detto che si chiama il tuo paese? Leonforte?”, chiede Mattia. Chissà perché ma la parola Leonforte lo fa ridere.
“Leonforte, certo. Lo sai perché si chiama così? Perché se arrivi a Leonforte di sera, se guardi le luci del paese da lontano, ti sembra di vedere un leone sdraiato, che sta dormendo”.
Non so perché mi sia tornata in mente questa storiella, che credo di aver inventato da bambino, durante gli spostamenti in macchina con i miei. A loro però piace. Mi chiedono se sia vera. Ovviamente mento.
Non ho mai amato particolarmente fare conversazione, anzi di solito nelle sale d’attesa mi abbandono alla lettura, ascolto musica o mi guardo attorno spaesato; persino pronto a cambiare posto, se a qualcuno venisse in mente di dialogare con me, immaginandolo nei panni di un serial killer psicopatico pronto a rapirmi e farmi a pezzi. Ma loro sono simpatici.
A un certo punto, così, dal nulla Daniel si mette a piangere. Sua madre lo vede e vorrebbe avvicinarsi, ma non può, perché finalmente è arrivato il suo turno. E così, forse avendo capito che non sono un assassino molestatore di bambini, mi fa un cenno come se volesse chiedere di parlargli per tranquillizzarlo.
“Cos’è successo Daniel?”, gli chiedo.
“Mattia mi ha picchiato!”.
“Mattì, lo hai picchiato?”.
“No, ma quando?”.
“Mi ha dato un calcio”.
“Gli hai dato un calcio?”.
“No, forse l’ho sfiorato mentre mi spostavo…”.
“Allora chiedigli scusa…”.
“Scusa Dani, ma ti sei fatto male?”.
“No, ma non mi prendere a calci”.
“Ti voglio bene, Dani, non l’ho fatto apposta. E non piangere… non piangere sempre”.
“Anch’io ti voglio bene”.
Mattia lo abbraccia e piangono un po’ assieme. Il tutto dura un paio di minuti. Dopo un po’ arriva la madre, che mi saluta ringraziandomi e scusandosi se mi avessero infastidito. Rispondo che anzi mi hanno fatto compagnia, e così ci salutiamo.
Ora. Io non sono esattamente la persona più incline alle emozioni, ma quella scena non riuscirò mai a dimenticarla. Quella mamma che da lontano li osservava con gli occhi lucidi, e che forse aveva assistito a scene simili mille volte; e le lacrime del fratello maggiore, che aveva solo nove anni, rimarranno impresse per sempre nel mio cuore.
È una storia vera. Non l’avevo mai raccontata. Stanotte però mi è tornata in sogno. E oggi lo faccio, raccontarla, perché vorrei dedicarla a tutte le mamme e a tutti i bambini speciali, specialissimi, che frequentano l’Oasi di Troina. Sono circondati da angeli custodi in camice e mascherine. Angeli custodi che in questi giorni stanno vivendo, assieme a loro e assieme a queste famiglie, una sfida difficilissima.
Ma sono loro, i bambini, i nostri angeli. Soprattutto i nostri ragazzi speciali. E ne verremo fuori.
Josè Trovato