Religione

Le beatitudini. Il desiderio di felicità nasce dal vuoto e dall’assenza.

In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante.
C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone.
Alzati gli occhi verso i suoi discepoli, Gesù diceva:
«Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati.
Beati voi che ora piangete, perché riderete.
Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i profeti.
Ma guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione.
Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame.
Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete.
Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi.
Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti». (Lc 6,17.20-26)

Il Vangelo di questa domenica (17.02.2019) ci presenta -nella versione lucana- il “discorso programmatico” del credo cristiano centrato sulle “beatitudini”. Questo discorso, in sintesi, vuole metterci in guardia dalla tentazione di credere che l’avere, il potere, il successo, possano realizzare l’essere umano e suggerisce l’idea che il desiderio di felicità, quale criterio fondamentale delle nostre scelte, può compiersi solo divenendo poveri. “Diventare poveri” significa spogliarsi del nostro falso sé, liberarsi dai pregiudizi e desideri egoici che ci spingono ad avere sempre ragione, a “rimanere a galla affondando gli altri”.

“Beati i poveri”. Dire che i poveri sono beati non significa giustificare il mondo dell’ingiustizia. Piuttosto vuol dire che “i poveri hanno nelle loro mani quel tesoro unico che è la speranza…sono gli uomini che non hanno altra ricchezza che la mano di Dio sulla loro testa”.

Solo chi è povero sa ancora desiderare, sperimentando quella incompletezza che fa sentire vivi e che spinge a camminare. Chi invece è ricco non sente più alcuna spinta. Quando, infatti, abbiamo tutto siamo infelici perché non siamo più capaci di desiderare. Il ricco è l’immagine di chi spera che nulla cambi; il povero è colui che spera nel cambiamento, che non sta fermo e non si accontenta.

E’ povero chi non è autosufficiente, chi non è chiuso in se stesso, chi ha bisogno di chiedere, chi è costretto a rendersi conto di aver bisogno degli altri. Perciò il nuovo non viene mai da chi è pago di sé: chi è sazio non sente il bisogno di creare occasioni nuove, avverte piuttosto quello di difendersi. Al contrario chi riconosce di non bastare a se stesso, vive il presente in un modo aperto perché abitato dal desiderio, dall’attesa, dalla passione per il cambiamento, e scava dentro di sé uno spazio aperto all’altro ed in cui Dio può entrare.

Poveri sono coloro che, rinunciando a considerare il denaro come valore supremo, scelgono di costruire una società giusta, pur sapendo che durante l’edificazione di questa società alternativa continueranno ad esserci fame e lusso. Il Regno di Dio è questa società alternativa! Una società che non è né l’esatto capovolgimento, o alternanza, di posizioni sociali (il ricco che diventa povero, il povero che diventa ricco) né l’impossibile, piatto, egualitarismo. Piuttosto è una società costruita sul valore della “povertà” così come sopra significato; la povertà assunta non come categoria sociologica o materiale, bensì come categoria antropologica ed esistenziale. “Ogni relazione vera è povera, non domina, ma tutto riceve e tutto dà”.

La povertà ci riporta così alla nostra condizione creaturale, riconosce il nostro bisogno essenziale, rende il limite luogo di comunione, e pone al centro la relazione (ossia il legame che intercorre tra noi e la responsabilità di ciascuno verso il prossimo), promuovendo dinamiche di cambiamento tese a realizzare -nel contesto sociale- strutture solidali e comunionali, sorrette da relazioni di prossimità e condivisione.

 

 

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