Attualità

La strage di via D’Amelio raccontata dalla studentessa Cecilia Croce

l 19 luglio del 1992, la mafia uccideva Paolo Borsellino. Per ricordare questo grande uomo la nostra redazione ha deciso di pubblicare uno scritto della studentessa Cecilia Croce del liceo Classico di Enna.

LA MORTE DI PAOLO BORSELLINO
Sono sempre stata brava nel ricordare le cose. Le chiavi appese accanto alla porta, da non
dimenticare di prendere prima di uscire da casa. Il colore preferito di mio fratello, il dolce che, se
potesse, mangerebbe per tutta la vita, e la sua città dei sogni (irrealizzabili). I compleanni dei miei
migliori amici, e quelli dei miei parenti (ma solo di chi mi sta veramente simpatico). Gli anni in cui
l’Italia ha vinto i mondiali. Tutte le mie frasi preferite di tutte le mie canzoni preferite.
Sono brava a ricordare le cose, anche i più piccoli dettagli. Soprattutto le date: quelle non le potrò
scordare mai, almeno non in questa vita. Ma ce n’è una che mi tormenta, che non mi lascia mai, né
di giorno né di notte; sta sempre lì, nel mio cervello: ogni tanto si nasconde, ma subito dopo eccola
riaffiorare dal nulla. Mi dà la caccia, mi perseguita, e a volte vorrei davvero avere una pessima
memoria.
Ricordo che cominciai a piangere la sua morte, quella di mio padre, quando lui era ancora accanto a
noi, a me e mio fratello, mentre stavamo vegliando la salma di Giovanni Falcone. In realtà,
all’esterno non piansi molto, ma dentro sì: era come se, con largo anticipo, stessi già patendo la
morte di mio padre. E probabilmente mio fratello faceva lo stesso, così come mia madre; dopotutto,
era piuttosto scontato. Dicono – chi? Non so, l’ho sentito da qualche parte, credo… – che, quando si
sta per morire, la consapevolezza si trasformi in un velo, steso perfettamente davanti gli occhi di
suddetta persona, che sta per abbandonare la sua vita terrena… Davvero, non so bene chi l’abbia
detto, né di cosa abbia parlato nello specifico, ma una cosa è certa: quando la Morte ti si avvicina, la
senti arrivare.
E credo che quella mattina del 19 luglio del ’92, quando mi sono svegliata due ore dopo mio padre,
un po’ me lo sentivo già, che qualcosa sarebbe successo. Come già dicevo, mi sono svegliata verso
le sette di mattina e sono uscita nel portico di casa, dove il posacenere di mio padre era stracolmo di
mozziconi consumati e spenti. Mi sorrise, gli sorrisi, e restammo in silenzio, nel portico; lui seduto
sulla sua solita sedia, con un’ennesima sigaretta incastrata tra l’indice e il medio, io dietro di lui, le
mani sullo schienale e lo sguardo verso il cielo.
Purtroppo, non potevo perdere troppo tempo, dato che l’indomani avrei dovuto sostenere un
importante esame universitario. Quindi, ho dato un bacio a mio padre e mi sono andata a preparare,
così da poter ripassare a casa di una mia collega.
Non sono tornata a casa nemmeno per il pranzo e, se avessi saputo cosa sarebbe successo dopo, ora
non ci penserei due volte a tornare indietro e godermelo insieme alla mia famiglia al completo (per
l’ultima volta). Ricordo che quel giorno, in TV, vi erano le immagini del Tour de France e anche che
avevo immaginato mio padre, grande appassionato di ciclismo, disteso sul divano intento ad
osservarle con minuziosa attenzione.
Poi, ho ripreso a studiare. Ho pensato ancora una volta a mio padre, quasi sognandolo, mentre si
faceva scortare a casa di nonna, con cui aveva un appuntamento per portarla dal cardiologo.
Ho realizzato che dal cardiologo mio padre non c’era mai arrivato – cioè, che era morto – quando
mio fratello chiamò a casa della mia amica. Lei andò in fretta verso il telefono, alzò la cornetta e
disse: “Pronto?”. Ho sentito pianissimo una voce sepolcrale giungere dall’altro capo del telefono, e
per un nanosecondo ho creduto di conoscerla vagamente. Non vi ho dato molta importanza, ma mi
sono ritrovata ad alzare di nuovo il naso dai libri quando la mia collega esalò un brusco sospiro. Ho
visto i suoi occhi riempirsi di lacrime, e la sua testa corvina voltarsi verso di me, probabilmente con
un gran groppo in gola. Ho ingoiato qualcosa come venti litri di saliva, sono scattata in piedi e le ho
tolto il telefono dalle mani, ma avevo già capito. Furiosa, ho urlato più volte a mio fratello di dirmi
cos’era successo (dato che era rimasto in silenzio sin da quando aveva sentito la mia voce), e alla
fine me lo disse: “Lu, papà è morto”.
Lui non lo ho mai visto, o meglio, non ha mai voluto vedere i suoi resti. Solo dopo qualche ora,
forse, gli ho riferito che io non solo li avevo visti, ma avevo pure voluto ricomporli e vestirli
all’interno della camera mortuaria. Immediatamente, mi ha detto che ero folle, completamente
andata, che nessuno col cervello a posto avrebbe mai fatto una cosa del genere; non credo di aver
mai ascoltato anche solo la metà del suo inutile discorso. Anche perchè, poche ore dopo, avevo un
esame. E l’ho sostenuto, lasciando incredula la commissione.
Non ho gettato nemmeno una lacrima, almeno per una settimana. Però, un giorno verso la metà di
luglio mi sono svegliata alle sette, due ore dopo l’orario in cui si alzava solitamente mio padre. Sono
uscita nel portico, che ora era completamente spoglio, e mi è parso, per un solo secondo, di rivedere
mio padre e il suo posacenere già pieno. E ho pianto. Credo di esser rimasta lì fuori, nel freddo di
quella mattina, per quasi mezz’ora.
Poi, quando il mio respiro si fu calmato, ma ancora con il segno delle lacrime sulle guance, sono
entrata nella camera dove dormiva mio fratello. L’ho trovato sveglio, disteso normalmente sul suo
letto, mentre guardava la polvere vorticare nel raggio di sole che filtrava dalla sua finestra. Come
reazione immediatamente alla mia insolita presenza nella sua stanza, lui è scattato a sedere sul
materasso e mi ha rivolto uno sguardo preoccupato. Io mi sono seduta accanto al suo fianco, gli ho
preso le mani nelle mie, e gli ho raccontato di come nostro padre era morto sorridendo e di come lo
spettro della sua risata sia rimasto incollato al suo viso antico. Sotto i suoi baffi affumicati dalla
fuliggine dell’esplosione avevo intravisto il suo ghigno, il suo sorriso di sempre. E mio fratello, che
fino a quel momento non aveva mai pianto di fronte a me o nessun altro, scoppiò in lacrime.
E poi gli ho detto quella cosa della Morte, del suo profumo spettrale e del velo che cala lentamente
sugli occhi delle sue prede; aggiungendo anche che quella mattina, in cui io mi ero sempre svegliata
due ore dopo papà, ero uscita nel portico e gli avevo sorriso, un po’ l’avevo già capito. Così, lui mi
ha rivelato che anche lui aveva avuto la stessa strana sensazione, ma mai ci aveva voluto credere
seriamente.
Ogni tanto, quando sono in un momento buio o non ho niente a cui pensare, mi chiedo: se non fossi
stata troppo impegnata con l’università, se avessi deciso di dar retta al mio sesto senso, cosa sarebbe
successo? Se, in un istante qualsiasi, ci avessi pensato… Cosa sarebbe successo? E magari, mi
ritrovo anche a fantasticare su quale sarebbero potute essere le conseguenze, o i finai alternativi. Ma
più ci pensavo, più mi rendevo conto che, prima o poi, mio padre sarebbe dovuto morire. Doveva
andare così.
È per questo che oggi ringrazio il cielo, per aver fatto sì che l’ultimo momento con mio padre sia
stata una chiaccherata silenziosa sul nostro tanto amato portico di casa. Ringrazio anche di essere
brava a ricordare le cose, perchè è per questo che oggi ancora ricordo di prendere le chiavi prima di
uscire da casa, il colore preferito di mio fratello, i compleanni delle persone che amo, gli anni in cui
l’Italia ha vinto i mondiali, tutte le mie frasi preferite di tutte le mie canzoni preferite… E soprattutto
ricordo il mio ultimo bacio sulla sua guancia, quella di mio padre, che era sempre stata calda e
morbida.

Cecilia Croce

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